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QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI
(DOG DAY AFTERNOON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 marzo 1976
 
di Sidney Lumet, con Al Pacino, John Cazale, Charles Durning, Chris Sarandon, Sully Boyar, Beulah Garrick (Stati Uniti, 1975)
 
Un fatto di cronaca vero, rapina, presa di ostaggi, assedio, fuga, fine dei malvagi. Il tutto, ormai purtroppo convenzionale, eseguito però con grande mestiere. Grande sceneggiatura, innanzitutto: i dialoghi sono perfetti, dramma, sentimento perfino comicità fusi mirabilmente. Con gli ostaggi (solidarietà fra due diverse categorie di sfruttati), con la folla (mitizzazione dell'eroe), con la televisione (seduzione dello spettacolo), con l'omosessualità (emarginazione etico-religiosa) e naturalmente, con la polizia (strumentalizzazione irreversibile del potere. Il taglio dell'azione è impeccabile, non una sequenza di troppo. E Al Pacino è grande; la sua rassegnata lucidità, la telefonata (qualcuno ha già scritto che è la telefonata più sensibile che sia mai stata portata sullo schermo), il suo personaggio di perdente del cuore d'oro, fanno pensare irresistibilmente a Humphrey Bogart. Omosessuale ed ebreo,è ovviamente vittima di un sistema che lo spinge, per le sue contraddizioni, sulla strada non di una violenza indesiderata, ma di un sogno di evasione impossibile.

Sidney Lumet, vecchio artigiano televisivo, non tradisce la propria abilità, e riesce una delle sue opere più accattivanti. Dove fallisce, ed è assai grave, è però nell'idea-base. E senza quella, il tutto diventa solo un buon prodotto commerciale. E cioè: il film poteva diventare una requisitoria spietata contro il sistema che ha portato i due poveracci alla rapina e alla morte. Ed infatti Lumet ci ha pensato: si pensi ai rapporti con i dipendenti della banca (una delle cose migliori del film), con la folla, con l'amico omosessuale, con la televisione.

Ma tutto va all'aria nel troppo lungo finale: il protagonista finisce col diventare lacrimoso, e la giustizia ancora una volta sembra avere ragione del delitto che non rende. Partito con l'idea di accusare la società Lumet pecca perlomeno di ipocrisia con una didascalia finale, nella quale ci dice che la moglie ed il figlio sono a carico dell'assistenza pubblica degli USA non so quanti anni.

Tutta la seconda parte dell'opera anticipa il finale prevedibile, di quella prevedibilità che le intenzioni critiche proprio dovevano evitare. La polizia funziona, l'autista del furgoncino ha la faccia dello sbirro, il delitto non rende. Per fortuna ,certo. Ma il discorso del film voleva essere un altro: perché non di delitto si trattava.Al Pacino, omosessuale ed ebreo,è ovviamente vittima di un sistema che lo spinge, per le sue contraddizioni, sulla strada non di una violenza indesiderata, ma di un sogno di evasione impossibile.

Se a Lumet la denuncia riesce solo a metà, e se il film non è un capolavoro,è perché il regista, lo conduce sul filo abile ma ambiguo che una lunga carriera di grande mestierante cinematografico solo gli permette.

E tutta la seconda parte dell'opera anticipa il finale prevedibile,di quella prevedibilità che le intenzioni critiche del film proprio dovevano evitare. La polizia funziona, l'autista del furgoncino ha la faccia dello sbirro il delitto non rende. Per fortuna ,certo. Ma il discorso del film voleva essere un altro: perché non di delitto si trattava.


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